L’azienda, di contro, rigetta l’ipotesi della dequalificazione e propone ricorso in Cassazione, contestando la sentenza emessa in Appello per «l’irrilevanza del conferimento dell’incarico di vice dirigenza».
I Giudici di secondo grado hanno affermato che «non risultava affatto mantenuta, pur nell’attribuzione dell’incarico di vice dirigenza, la professionalità del dipendente, sia quantitativamente, per l’assenza totale (o per un’attribuzione del tutto sporadica) di incarichi direttivi, sia qualitativamente, in relazione al concreto esercizio dei poteri di delega in ordine ai quali non era risultato, dall’istruttoria espletata, l’esercizio di poteri effettivi direttivi».
I legali dell’azienda sostengono che sia necessaria una diversa «interpretazione evolutiva con riguardo alla peculiarità della categoria dirigenziale, e, in particolare, del cosiddetto “top mangement”».
La Cassazione dichiara che non viene colta «la sostanza della situazione venutasi a creare, e cioè, come accertato dal Giudice di appello, la inattività del dipendente (e non un diverso rapporto con i vertici aziendali)».
Decisiva la versione offerta dal lavoratore che sostenuto di «non essere adibito ad alcuna attività confacente il proprio inquadramento», mentre l’azienda non ha portato nessuna prova che porti a «dimostrare l’assegnazione del dipendente a mansioni corrispondenti al profilo professionale».
Per quanto riguarda il danno da demansionamento, la Cassazione approva la decisione presa in secondo grado in quanto è stato dimostrato il danno ponendo l’accento sulla «rapida evoluzione delle tecnologie» e sulla «necessaria conoscenza da parte del “top manager” delle informazioni non strettamente tecniche ma correlate alle complesse problematiche relative all’organizzazione e produzione aziendali, richiedenti costante aggiornamento professionale, venuto meno per effetto del demansionamento».